“Di un giardiniere errante” ad Ischia

“Di un giardiniere errante” ad Ischia

di Ermanno Casasco

estratto dal libro "Di un giardiniere errante" Maestri di Giardino Editori(2014)

Arrivando al Negombo nel 1988, portato dal vivaista ischitano Strina (che mi aveva sottoposto a un duro esame in Sicilia per vedere se ero abbastanza preparato prima di presentarmi al conte Fulceri Camerini, proprietario del Negombo e alla ricerca di un paesaggista), comprendo che tutti i lavori del parco vengono effettuati solo prima della sua apertura. La baia è bellissima, ma il parco è abbastanza squallido, con muretti bianchi spagnoleggianti che delimitano le aiuole piene di fiorellini stagionali. Ci sono qui tutti gli elementi del giardino che non mi piacciono. La prima operazione è quella di eliminare i muretti, che oltretutto impediscono all’acqua piovana di scolo delle zone pavimentate di entrare nelle aiuole. L’acqua a Ischia non va sprecata, quindi è meglio recuperarla tutta. Si tratta di far cambiare mentalità a Marco Castagna, il direttore, e a Fulceri. Sono più giovani di me, quindi sono in vantaggio su di loro per esperienza e per anzianità. Marco mi segue subito, Fulceri per il suo carattere deve sempre brontolare su tutto, e continua a farlo ancora oggi.

L’insegnamento prioritario che do è che si intraprendano i lavori alla chiusura stagionale del parco. Glielo spiego in modo molto semplice: i contadini, per avere il raccolto di grano in estate, arano, concimano e seminano in autunno e in inverno. Allo stesso modo, per avere bello il giardino a primavera bisogna piantarlo, concimarlo o potarlo in autunno e in inverno. D’inverno Ischia rimane popolata e vivace, e quindi, cessato il lavoro, le serate diventano piacevoli. Siamo tutti giovani e il Valentino, la discoteca del luogo aperta fino al mattino, diventa il nostro ritrovo. Fulceri e Marco ci spingono a far tardi, quasi a sfidare la nostra resistenza sul cantiere l’indomani. Il personale del Negombo, che durante la stagione estiva svolge mansioni di bagnino, cuoco, eccetera, con il parco chiuso al pubblico diventa, insieme a miei tre collaboratori, un gruppo di giardinieri. Fulceri pensa che affronti l’impegno come un gioco, data l’atmosfera che si crea fra noi. Nonostante le nottate al Valentino, di giorno si procede però velocemente e positivamente. Anche Fulceri comincia a divertirsi. Marco dopo il primo inverno è entusiasta perché si ritrova il parco rigoglioso e pronto senza preparativi affrettati prima dell’apertura e può dedicare il suo tempo ad altri compiti. Mi accorgo che quello che per me, cresciuto in campagna, è logico e naturale, per gli altri è una grande scoperta. Talvolta Marco e Fulceri fanno fatica a seguirmi. Vorrebbero che intervenissi in una zona ben delimitata, ma io vado a piantare, potare e tagliare saltando da un posto all’altro all’interno del parco. Il mio problema è cercare di aprire la vista sul mare, di legare e armonizzare tutto l’insieme. Non mi interessa esaltare una zona che creerebbe ancora un’altra disarmonia nel parco.

Dopo alcuni mesi di attività al Negombo ho come dei flashback che me lo ricordano. Ero stato a Ischia una domenica con altri tre amici, durante il servizio di leva a Caserta, e il tassista con il suo Ape cabinato ci aveva portato dal porto in una baia deserta, al sicuro dall’incursione della ronda militare. Cerco tra le mie fotografie di allora: ce ne sono alcune che abbiamo scattato proprio lì. In una di queste appaiono terrazzamenti che salgono verso il monte. Ora non si vedono più: il Negombo è cresciuto solo nella parte pianeggiante della baia. Convinco Marco e Fulceri a pulire il terreno dai rovi e dalle piante infestanti che impediscono qualsiasi accesso verso la montagna; ritrovo la grande scalinata di pietra costruita dal padre di Fulceri per unire i vari terrazzamenti e cominciamo a recuperare gli ulivi, i carrubi, i lentischi, i lecci, i pini marittimi che erano cresciuti sopra. Alcune “parracine” (i muri a secco) erano nel frattempo parzialmente crollate: cerchiamo di riprenderci quello che nei secoli i contadini avevano costruito lungo il pendio.

È a questo punto della storia che arriva la denuncia anonima di un ambientalista, il quale scrive che i rovi e la sterpaglia hanno il diritto di vivere come gli ulivi, i carrubi e l’altra vegetazione “più nobile”. Sono gli anni bui del paesaggio italiano: il verde diventa un partito e per darsi una linea promuove il naturale, il selvaggio come soluzione all’erosione del territorio da parte del cemento. Non si può eseguire nessuna manutenzione nei boschi, ciò che cresce lungo i corsi dei torrenti e dei fiumi non si può eliminare. È grande la delusione che provo ritornando al mio paese natio dove i grandi castagni sono stati tagliati per farne legname e il bosco è abbandonato a se stesso, pieno di rovi. Il torrente Sporzana è scomparso tra la vegetazione che si è insediata dentro il suo invaso; i vigneti non esistono più e i campi sembrano incolti; le case di pietra dei contadini sono intonacate e ristrutturate con infissi in alluminio e verande varie. Non riconosco più i miei luoghi: per non distruggere quell’immagine che mi ha aiutato e ispirato così tanto nel mio lavoro decido che è meglio non ritornarci più.

Ritornando al Negombo, i Carabinieri, decidono di mettere i sigilli in attesa di verificare il nostro operato. Tre mesi di panico per Marco e Fulceri, l’apertura della stagione che si avvicina e loro che rischiano di non farcela. Per fortuna tutto si risolve bene e possiamo ultimare i nostri lavori. Troviamo vasche che servivano per la raccolta delle acque e l’irrigazione delle balze: le recuperiamo come piscine termali

Da ogni mio viaggio in Australia, in Sud Africa, negli Stati Uniti o in Giappone – praticamente da ogni luogo del mondo che visito per turismo o per lavoro – porto semi di piante, fiori e graminacee che mi sembrano adatte al nostro clima. Durante una trasferta in Australia, di nascosto dal ranger che ci guida nell’escursione, raccolgo ogni tipo di seme che mi capita nascondendolo nei tubetti dei rullini fotografici vuoti e nelle tasche: ne riempio un sacco, di quelli che si usano per la pattumiera. Purtroppo sulla via del ritorno mi fermo a Kuala Lampur, in Malesia. Alla dogana un gigantesco cartello avverte che c’è una multa salatissima in dollari o sei mesi di prigione per chi introduce semi o piante nel Paese. Aprire la valigia, prendere il sacco nero di plastica e buttarlo nel bidone della spazzatura è come vedermi scomparire davanti agli occhi un giardino esotico e fiorito a Ischia. (Il divieto è giustissimo, soprattutto quando si introducono semi in alcuni paesi “nuovi” come l’Australia o la California, dove un insetto o una pianta possono colonizzare e distruggere intere zone. In Italia e nella vecchia Europa per secoli sono state importate piante esotiche senza problemi, ma qui ora si sviluppano malattie e arrivano insetti che proliferano a causa degli squilibri ambientali che noi abbiamo creato.)

Marco nel frattempo diventa un botanico specializzato: riesce a far germogliare i semi che gli porto. Le nuove balze recuperate e ricostruite, nonostante la ricca piantumazione, rimangono spoglie e comunque prive di quelle fioriture che piacciono tanto ai turisti. In California, in Australia e in Sud Africa compero chili e chili di wildflowers e buste di Cottage Flowers e riempio sacchetti di plastica di semi che raccolgo in giro. Giunto ad Alice Springs, in Australia, cerco l’Orto botanico: è un minuscolo giardino con una casetta di legno nel mezzo. Mi affaccio alla porta: c’è un piccolo uomo, con grossi occhiali, che sta scrivendo a mano su alcune bustine i nomi comuni e latini dei fiori. Dentro vi sistema pochissimi semi, con attenzione e parsimonia come se fossero brillanti. Chiedo di acquistare tutte le buste già pronte più le altre che sta preparando. Mi guarda scioccato: non credo gli sia mai capitata una tale vendita. Poi si illumina, felice di aver trovato un appassionato proveniente da un paese così lontano, e mi mostra tutto il suo archivio e l’Orto. Gli domando se ha o può procurarmi dei semi di Cicadacee che crescono nella zona e che non sono mai riuscito a trovare in Italia. Alle otto di sera sono in albergo e vengo chiamato alla reception. Si presenta il mio botanico con un sacchetto di iuta legato con una corda: contiene una decina di semi di Cicadacee. Lo regge con la medesima cura e l’orgoglio di un cercatore d’oro che mostra una borsa piena di pepite.

Marco trova bellissime le bustine che gli porto e decide di iniziare a collezionarle (ma le più originali rimarranno sempre quelle di Alice Springs). Vari semi li butto a manciate in giro per il parco, cosa che Marco giudica uno spreco: vuole preparare il terreno e seminarli in modo appropriato. Glielo concedo, ma continuo nella mia operazione perché il vento e il caso li distribuiscano anche negli angoli più disparati, ottenendo l’aspetto casuale e naturale che desidero. Inconsapevolmente si creano delle zone con graminacee e tipi di fioritura che anticipano di molto i gusti attuali.

Rifletto moltissimo sul futuro del parco, su come dovrà essere, su come sarà percepito dalla gente e sul risultato che io voglio ottenere. L’ho ben chiaro in mente: deve essere un bosco con radure (il mio bosco dell’infanzia). L’acqua adesso ne è un elemento fondamentale, non più solo decorativo, quindi posso sbizzarrirmi nel costruire piscine e cascate purché abbiano un uso termale. Le memorie o le fantasie che ho sempre inseguito finalmente diventano realtà. Da un mio ricordo di Pammukkale, in Turchia, derivano ad esempio la forma e il nome di alcune vasche costruite a gradoni e collegate con cascate d’acqua. Qui le sorgenti termali sgorgano tra le rocce: è uno scaturire che mi ha sempre affascinato, la sorgente è qualcosa di misterioso.

Vicino alla mia casa, da bambino, c’era una collina tagliata a metà (forse parte di una frana). Era grigia, senza cespugli, di terreno friabile. D’estate vi raccoglievamo rami di ginestra che mettevamo sotto il sedere e che usavamo come slitte per scivolare a valle. A metà della scarpata c’era una piccola sorgiva con un minimo di vegetazione, dove i piccioni e gli uccellini andavano ad abbeverarsi. Mi piaceva raggiungerla e, per impedire che la poca acqua si disperdesse durante la stagione estiva, con le mani creavo una conca che la conservasse il più a lungo possibile, a beneficio dei volatili. Questo ricordo dell’infanzia va accostato alla lettura di un libro che forse non avrei dovuto leggere data l’età: Al Dio sconosciuto di Steinbeck. Era un dramma contorto e complicato, ma quello che mi aveva impressionato era il rapporto che uno dei protagonisti instaura con una sorgente che sgorga da sotto una roccia, circondata da piccole felci. La sua ansia perché essa non si inaridisca d’estate, perché le felci non muoiano e la sua disperazione quando questo accade, hanno fatto sì che io provi ancora un senso di sconforto ogni volta che nei paesi e nelle città, in mezzo a piazze, rotonde o parchetti, vedo queste fontane con pretese scultoree o architettoniche, vuote e abbandonate dopo la probabile euforia dell’inaugurazione. Da qui la mia determinazione a costruire fontane o cascate che anche se prosciugate non siano squallide. Nei giardini giapponesi ho visto questi elementi asciutti, formati da sassi e da pietre che davano il senso dell’acqua senza che questa fosse presente, così come mari immaginari fatti di ghiaietto bianco, dove le rocce possono essere intese come isole che affiorano o animali che nuotano. È il giardino zen, che io trovo molto bello comunque lo si interpreti e qualunque sia la sua origine. A poco a poco il Negombo matura, si addensa; le piante non autoctone che ho inserito procedono rigogliose, confondendosi e amalgamandosi con quelle esistenti. Dal mare osservo la baia: da un lato si stacca un promontorio di vegetazione spontanea. Quello che cerco di assicurarmi è che non venga divisa in due tra parte turistica e non, ma che abbia una continuità visiva. Convinco Marco e Fulceri a collocare nel parco opere d’arte di Arnaldo Pomodoro, Lucio Del Pezzo, Laura Panno e Giuseppe Maraniello.

L’arte in giardino è difficile da introdurre, deve avere il giusto spazio e la giusta proporzione con il verde che la circonda. Ricordando la storia del giardino italiano, l’arte è ciò che lo valorizza e lo fa durare nel tempo.