Gli Eubei e l’alba della Magna Grecia. Gli Eubei, chi erano costoro?

di Mariangela Galatea Vaglio

Sono mica tutti uguali, i Greci. Proprio no. Prendi gli Eubei.

Che se li nomini all’improvviso, a qualcuno che di Storia Greca non ne mastica tanto, la reazione è: “Chi?”.

Se gli nomini gli Ateniesi, o gli Spartani, persino il più tumbano un concetto lo riesce a reperire, nel cervello.

Gli Eubei, invece, si beccano solo un “Chiii???”, manco fossero i figli della serva.

Eppure sono importanti, gli Eubei. Fondamentali. Mica solo per la Storia greca, tra l’altro. No, per la Storia d’Occidente in generale.

Oddio, a voler essere pignoli, anche per quella d’Oriente. Diciamo per la storia e basta.

Erano originari dell’isola dell’Eubea, una striscia lunga lunga, prospiciente l’Attica; una terra che ha la forma di una tagliatella. È srotolata nel mare, di fronte ad Atene.

Eubèa o Èvia, chiamata dai veneziani Negroponte, è un'isola della Grecia

Il mondo di Atene si ricorda sempre, ma quando l’Eubea era all’apice della sua potenza, ecco, Atene era una città di secondo piano, diciamo una accozzaglia ancora mal riuscita di villaggi abitati da contadini con le pezze al culo, due capre emaciate e, a Torico, un porticciolo in disarmo: niente Partenone, niente Propilei, l’Acropoli ancora una rupe mezza vuota, con forse giusto un tempio di risulta, cresciuto sui ruderi di un vecchio palazzo miceneo andato in rovina. Arrampicati sulle rocce, quattro pastori che guardavano il mare chiedendosi: chissà come ci si sposta sopra quella roba lì.

Attorno era collassato un mondo, e non si capisce neppure perché. I regni micenei, quelli che avevano costruito i primi palazzi, e gli archivi, e in qualche modo partecipato alla guerra di Troia, erano spariti di botto, lasciandosi dietro miserie e rovina.

Un tempo si pensava che fosse stata colpa dei Dori questo improvviso decadimento, e giù ad immaginar invasioni di biondi occhiocerulei guerrieri, che aprono in punta di lancia un Medioevo ante litteram.

Invece pare di no: i Dori, quando arrivano, trovano già lo sfacelo. A far crollare le rocche e i palazzi forse terremoti, forse l’aggressività dei Popoli del Mare, pirati raminghi mezzi levantini mezzi non si sa cosa, che arrivano, bruciano tutto e vanno via, lasciando le popolazioni costiere sotto choc, a domandarsi che è capitato.

I Dori

Ma gli Eubei, dicevamo. Nella loro isola, si sta decentemente tranquilli, tanto che nasce una aristocrazia commerciale che abita in belle città, belle case e costruisce tombe che lévati. Sono nobili che vanno per mare, con barche e barchette, commerciando lingotti di rame, metalli, vasellame e forse olio e vino. Principi che non schifano il remo e lo scalmo, anzi: curiosi, attivi, testardi. Te li ritrovi dappertutto, nell’Egeo, nel Mar Nero, e poi dall’Adriatico alla Spagna, alle lontane, lontanissime spiagge del Marocco e dell’Africa atlantica, fino al Mar Rosso e l’Arabia: non c’è un porto in cui non entrino e popolazione indigena con cui non intessano scambi commerciali.

La loro vera casa è il mare color del vino, di cui conoscono ogni insenatura e ogni pertugio; e quando non lo conoscono, si buttano ad esplorarlo, anche a costo di dimenticare casa e famiglia per mesi e per interi anni, perché gli Eubei son fatti così, devono sempre sapere cosa c’è più un là, e il pericolo vale il rischio, se si può cavarne un’avventura o un guadagno.

Vi ricordano qualcuno? Già, Ulisse. E mica per caso. Vi ricordate, a scuola, quando vi facevano studiare la cartina del Mediterraneo, in cui erano segnati gli approdi di Ulisse, Circe al Circeo, Calipso a Gibilterra, Scilla e Cariddi sullo Stretto, i Ciclopi vicino all’Etna e il regno dei morti a Pozzuoli, fra le zolfatare del Vesuvio? Ecco, se guardate quella cartina, avete sotto gli occhi la mappa dei territori degli Eubei: in ogni porto di Ulisse c’era una loro città o un loro scalo: furono loro, in pratica, a trasformare un racconto mitico e vago come l’Odissea in un viaggio reale, con tappe scandite sul terreno, manco fosse, l’itinerario di Ulisse, una sorta di predecessore dei loro portolani, e Ulisse stesso uno dei loro principi-navigatori.

Testa di Ulisse rinvenuta nella Villa di Tiberio a Sperlonga

Be’, veramente, lo era, quasi. Itaca, la sua isola natale, era ad un braccio di mare da Corcyra, Corfù, una delle loro principali colonie, sede, nell’Odissea, del felice popolo dei Feaci. E anche Omero, poi, era uno di famiglia. Una leggenda lo vuole proprio in Eubea, ad un agone, in cui si scontrò con Esiodo. Una favola, non ci sono dubbi. Però i nobili euboici Omero lo conoscevano a menadito, e lo recitavano a memoria, nel corso dei loro banchetti.

Ne siamo certi per via di una coppa, ritrovata a Pithecusa, cioè ad Ischia, primo luogo, in Italia, in cui gli Eubei, in IX secolo a.C, fondarono una colonia, destinata a breve vita.

La baia di San Montano, Lacco Ameno, ad Ischia

Per la precisione nella Baia di San Montano, l’attuale Parco Negombo. Sulla coppa, una iscrizione: La coppa di Nestore era piacevole a bersi, ma chi beva da questa subito lo prenderà il desiderio di Afrodite dalla bella corona. Tre versi, forse il gioco fatto ad un banchetto, che sono però una citazione diretta dell’Iliade e la prima testimonianza di scrittura in Occidente.

Coppa di Nestore

Doveva essere bella Ischia, allora: un porto vivace in cui si incrociavano mercanti di ogni provenienza. La Coppa di Nestore, per dire, non fu trovata nella tomba di un Greco, ma in quella di un ragazzo, forse Arameo, di certo mediorientale; magari un mezzo sangue di seconda generazione, la cui famiglia viveva nella Baia di San Montano, commerciando.

Doveva essere bella e affascinante, questa isola che nelle giornate limpide vedeva il sole sopra il Circeo, perché Circe abita vicino alle case del Sole, e poi la costa laziale dove c’erano gli insediamenti di quelle che poco dopo sarebbero diventate le potenti città etrusche.

Ridgway, che l’ha scavata, ha definito quel periodo L’alba della Magna Grecia.

Ma della nostra civiltà futura, in un certo senso, c’era già tutto: lo spirito di impresa, il coraggio, la curiosità anche un po’ incosciente, il senso del bello, la spinta a varcare i limiti anche quando sarebbe più saggio fermarsi più in qua, il rischio, la capacità di fondere e inglobare altri popoli, di imparare e dare, di inventare, in fondo, storie e personaggi meravigliosi più veri del vero, per farsi compagnia nelle lunghe notti solitarie in mezzo al nulla.

Gli Eubei, non scordatevi di loro. Più che l’alba della Magna Grecia, per gli Occidentali costituirono l’alba del mondo.

«Io sono la bella coppa di Nestore,chi berrà da questa coppasubito lo prenderà il desiderio di Afrodite dalla bella corona»