I quaderni del giardino: La filigrana
All’inizio della loro storia, gli Stati Uniti si trovarono a dover fronteggiare un’ondata di falsari. Con l’indipendenza dalla Gran Bretagna, vennero a mancare le attrezzature per la produzione di filigrane, indispensabili per rendere sicure le banconote. Tuttavia, per far funzionare l’economia del giovane paese era essenziale avere denaro in circolazione, e le banche iniziarono a emettere titoli con garanzie piuttosto ridotte. Oltre ai migranti religiosi spinti dall’etica protestante, il paese attirava anche individui pronti a contraffare pur di inseguire il proprio ideale di successo.
Questa combinazione di fattori creò un tasso di falsificazione delle prime banconote emesse dalle nuove banche americane così elevato da minacciare la stabilità finanziaria della nazione. Un’invenzione di Benjamin Franklin, insieme all’uso delle risorse vegetali, consentì di porre un argine a questa problematica. Franklin, famoso per il parafulmine e le lenti bifocali, ideò un metodo innovativo: la tecnica del nature printing, basata sull’impronta di una foglia su una lastra metallica, che generava una matrice capace di trasferire nei minimi dettagli venature e contorni della foglia stessa, proprio come un timbro.
Il metodo sfruttava soprattutto le foglie di salvia, la cui forma irregolare e nervature in rilievo fornivano dettagli unici, difficili da riprodurre persino tra cloni dello stesso esemplare. Questa tecnica creava un effetto simile alla filigrana, poiché ogni foglia era unica e impossibile da copiare senza l’originale matrice. Le banconote così realizzate trovarono un primo utilizzo in Pennsylvania e successivamente furono adottate dalla futura Bank of America. Un’origine vegetale che è alla base del verde iconico del dollaro americano.
Il successo di Franklin si basava inconsapevolmente su una caratteristica biologica fondamentale nelle piante, ovvero la differenza tra genotipo e fenotipo, concetti che sarebbero stati studiati in profondità solo due secoli più tardi. Il genotipo rappresenta il corredo genetico ereditato, mentre il fenotipo comprende i tratti visibili di un organismo, come quelli anatomici, fisiologici e morfologici, influenzati dall’ambiente. Questa caratteristica, nota come plasticità fenotipica, è particolarmente marcata nelle piante e consente loro di sviluppare variazioni significative in risposta alle condizioni ambientali: un’espressione che si può osservare nei dettagli microscopici delle nervature fogliari o in variazioni più evidenti.
Per esempio, una stessa pianta di Arabidopsis thaliana può sviluppare una rosetta di 30 foglie o di sole 8 foglie in base alla quantità di luce ricevuta nelle fasi iniziali della crescita. Analogamente, spostando una pianta di ricino dall’Etiopia all’Europa, questa può passare da una struttura arborea di quasi dieci metri a una più ridotta, erbacea, con un’altezza di appena due metri.
In Ranunculus aquatilis, le foglie galleggianti che affiorano sugli stagni risultano larghe e a forma di cuore, mentre quelle sommerse sono sottili e filamentose. Il grado di immersione modifica così la pianta, che appare diversa pur avendo il medesimo genotipo.
Le foglie delle querce sono un altro esempio di plasticità, poiché la loro crescita varia in base all’esposizione luminosa: le foglie sviluppate al sole sono più spesse e compatte rispetto a quelle che crescono all’ombra, dove devono captare più luce. Sono differenze che spesso sfuggono all’occhio umano, ma che si rivelano con strumenti di misura precisi.
La relazione tra genotipo e fenotipo può essere vista come una sorta di dialogo: la genetica offre delle possibilità, mentre l’ambiente influisce su come queste si esprimono, creando una complessa interazione che costituisce uno dei grandi enigmi della botanica. Comprendere questa interazione non solo svela l’incredibile capacità adattativa delle piante, ma si rivela anche essenziale per sviluppare nuove varietà coltivate e ottimizzare le attività agricole, cruciali per affrontare le sfide alimentari e ambientali del futuro.