2001-Loisaida- NYC Community Gardens
di Michela Pasquali
breve estratto dalla prefazione del libro " Loisaida -Nyc Comminity Gardens" presentato dalla bravissima Michela Pasquali ad Ipomea del Negombo 2001
Spontanei o personali, indigeni e locali, etnici, esotici, ma anche precari, marginali, anonimi. Così si possono definire i giardini nati nelle numerose aree abbandonate di un piccolo quartiere di Manhattan chiamato Loisaida, grazie alla libera iniziativa dei suoi residenti. Ma è vernacolare il termine che meglio di ogni altro ne rivela la natura domestica, quotidiana, e li assegna a quel verde minore, non istituzionale, che esiste da sempre accanto ai parchi storici e agli orti botanici come espressione di "una reale necessità dell'uomo, un bisogno fondamentale e innato, che si impone malgrado ogni ostacolo, come tutti gli altri bisogni primari" La varietà tipologica, la molteplicità delle soluzioni inventive e la complessità espressiva fanno di questi giardini uno dei casi più interessanti per conoscere un prezioso patrimonio di verde urbano nascosto e per scoprire le sorprese di un particolare codice dell'esperienza, del giardinaggio come riscatto nell'utopia che si fa luogo, fiorendo.
Esistono giardini grandi come interi isolati o piccoli come un'aiuola - che nascono grazie all'iniziativa di gruppi o di singoli cittadini, spinti dal desiderio e dal bisogno di ridare vita a zone degradate della metropoli, trascurate dal corso degli interessi del momento e lasciate in stato di abbandono. In un piccolo quartiere di Manhattan chiamato Loisaida questi giardini spontanei sono numerosissimi e spiccano per varietà tipologica, molteplicità delle soluzioni inventive e complessità espressiva. Esempio straordinario di verde urbano nascosto e inedito, li si potrebbe definire indigeni o locali, etnici, esotici, ma soprattutto precari, marginali, anonimi, vernacolari. Precari perché instabili e di incerta durata, essi mutano e si evolvono nel corso del tempo, prodotto di bricoleur, che agiscono, naturalmente, all'insegna dell'improvvisazione, senza i mezzi e le conoscenze adeguate. Estranei alla cultura ufficiale, essi creano giardini colonizzando spazi urbani intermedi o interstiziali, terrains vagues o vacant lots, appropriandosi di terre di nessuno, analogamente a quanto fanno gli squatter insediandosi in edifici disabitati o gli homeless costruendo le loro baracche. Marginali perché privi di modelli e indifferenti alle influenze della moda, trasgrediscono le convenzioni e riflettono un mondo anticonformista, legato a un contesto urbano duro e fortemente conflittuale, In tale marginalità si esprimono tuttavia una libertà creativa assoluta e una ricchezza di valori sperimentali, non contaminati, che possono trasformarsi in una inesauribile fonte di risorse per l'arte e l'architettura contemporanea. Anonimi perché frutto dell'uomo invisibile, dell'individuo comune, e pertanto semplici e ingenui. Vernacolari, infine, come espressione di una natura domestica, quotidiana, propria di quel verde minore, non istituzionale, che esiste da sempre accanto ai giardini storici, ai parchi pubblici, agli orti botanici. A orti e giardini spontanei - la distinzione è spesso ambigua e fluttuante non viene riconosciuto alcuno statuto peculiare, né, tanto meno, un'autonomia strutturale ed estetica. Qualcosa di simile accadeva anche per l'architettura spontanea, da sempre relegata nelle pagine di geografia o di antropologia, fino a quando, con l'esposizione "Architecture without Architects. A short Introduction to a Non- Pedigreed Architecture", realizzata al Museum of Modern Art di New York nel 1965, B. Rudofsky non la portò alla ribalta, per un confronto con "l'architettura degli architetti", considerata come esclusiva di una classe economicamente e culturalmente capace di sostenerla. Risale a quello stesso periodo la riscoperta e la diffusione dell'interesse per questo mondo "altro", vernacolare e povero di mezzi, come dimostrano le correnti di pensiero e i movimenti artistici che in qualche modo ne rivendicavano il riconoscimento. Jean Dubuffet coniò il termine "art brut" per denominare l'insieme delle opere create al di fuori della cultura ufficiale. Claude Lévi-Strauss chiamò "architettura selvaggia" la pratica degli abitanti-costruttori, definendola come una presa di posizione non premeditata, istintiva. Sugli stessi principi si sono fondati negli anni Cinquanta il tachisme, l'action painting e il dripping, mentre l'arte povera, l'assemblage, il ready-made o objet trouvé e il frottage hanno sviluppato, in modi e con esiti diversi, il principio del riutilizzo di materiali di scarto in nuovi contesti. Così, nel medesimo segno della spontaneità e dell'istinto, i giardini di Loisaida si manifestano anche come un'analogia e una ricorrenza del fare artistico: la natura precaria come un'installazione, ma, soprattutto, come traccia del dimorare e dell'abitare, dell'aver cura.